Se per pittura fantastica si intende un’espressione artistica svincolata dalla ragione, Francesco MIan è certamente un pittore fantastico, ma osservando le originali situazioni illustrate per mezzo di insolite visioni si nota nei quadri di questo giovane milanese un’accentuata tendenza al metafisico che, dietro una sofferta creatività, lascia intravedere dei contenuti densi di valori surreali.
Per quanto la struttura delle opere di Mian sia apparentemente “aperta” senza preoccupazioni apologetiche né dottrinali, e la narrazione, fatta di semplici figure caratterizzate da marcati profili e tonali cromie, abbia la piacevole immediatezza della favola illustrata, c’è un’atmosfera di sospensione in ogni quadro, quasi un fluttuare delle immagini nella mente di chi, operando, scopre un altro io diverso da quello attuale.
Da questa duplice sostanza emozionale scaturisce la terza dimensione del Mian uomo ed artista: la sensitività.
Ci troviamo dunque di fronte ad un pittore dalla personalità complessa, che esprime graficamente degli stati d’animo materializzando, in chiave mistica, forme di pensiero.
Non è per tanto facile penetrare nell’intimo di questo autore e la questione interpretativa si presenta ardua.
Il primo elemento che emerge da un esame dei suoi elaborati è questo: Mian intende esprimere la relatività nelle nostre possibilità di comunicazione.
Ed il fatto che intenda esprimerlo non vuole assolutamente dire che egli si ponga il problema di una spiegazione che porti alla conoscenza.
Con i suoi personaggi immersi in un mondo acquatico i quali si parlano ma non si sentono e sanno di non essere sentiti, Mian ci evidenzia il senso di un monologare che pone l’uomo di fronte all’indifferenza degli esseri e lo isola in una propria indifferenza di essere. Cosicchè ogni figura partecipa solisticamente ad una scena dove ciascuna vive una sua realtà esclusiva, parallela a quella degli altri, pur manifestando intenzioni idealogiche con lo svolgersi, tra forma e forma, delle antenne: alle quali è affidato il compito di esprimere una suadente ed armoniosa musicalità e il frastagliato sismogramma di contrastanti umori.
Persone, animali e cose si ritrovano quindi ad essere contemporaneamente soggetto ed oggetto di una situazione che li vede come tante amebe in una monocentricità ineluttabile.
Si può comunque dire che l’antropoide di Mian riesce a vivere in sé e può fare a meno del contatto con quanto lo circonda.
Non vi sono infatti equivalenze né corrispondenze tra i diversi personaggi, ognuno dei quali è ragione della propria esistenza e l’atmosfera liquida che ottunde il suono ed impedisce la libera circolazione della parola diventa il diaframma invalicabile al di qua ed al di là del quale ogni individuo si manifesta in una essenza che non ha rapporto con il resto, vista l’impossibilità di una qualsiasi corrispondenza, anche soltanto teoricamente gestuale, poiché persino il fattore semantico del gesto è precluso ai personaggi di Mian, che non hanno braccia, spesso sostituite da un’appendice tentacolare, sempre protesa verso l’esterno, in un estremo tentativo di significanza.
Allegorie di una situazione tipica dell’alienato ambiente in cui vive l’uomo moderno, o piuttosto introspettivie reminiscenze subliminalmente registrate da un’intelligenza precoce, durante la fase di incubazione nel liquido amniotico? Potrebbe forse partire da questi due interrogativi un’eventuale ricerca sul valore metafisico del messaggio di Mian.
Arnaldo Graglia Torino, 1974