Elisabetta Carpeggiani                                                            back to Bio & Essays


 

 Francesco Mian ha cominciato a dipingere da ragazzo negli anni ‘50 sperimentando da autodidatta, attratto dal cubismo di Braque, dal futurismo di Depero e dall’astrattismo geometrico di Soldati.

Nel 1960, allievo dei pittori Maiolino di Bordighera e Beltrame di Sanremo, apprende le tecniche della pittura a olio applicate alla natura morta e al paesaggio, partecipa  a  mostre collettive in Riviera.

 

    Si trasferisce a Milano per seguire gli studi di architettura al Politecnico. Vive le dinamiche culturali prodotte dagli eventi del tempo e indaga i fatti sociali nelle loro complesse mutazioni. Crede, come molti della sua generazione, nella necessità di una scelta morale e ideologica  che guidi la vita.

 L’incalzare della “Pop Art” con cui si “scontra” alla Biennale di Venezia del ’64, una breve frequentazione di Tapies e varie sperimentazioni  contribuiscono a fargli avviare la ricerca artistico-pittorica che tuttora gli è propria. E’ un’espressione pervasa da influssi metafisico–surrealisti e coniugata con sintesi concettuali in cui domina il segno. E’ il percorso di un  cartografo del campo psichico in viaggio  tra i passi del quotidiano sopravvivere. Forma e colore sono sopravanzati da un segno sinuoso e primario che contiene la sintesi delle emozioni, dei sentimenti e dei progetti  intrecciata saldamente con passato presente e futuro.

 

     Definisce e applica su tavola un  linguaggio pittorico che continuerà a usare inalterato fino al 1978: stesura con spatola larga di una base di stucco su tutta la tavola, esecuzione a graffito dei soggetti e  loro cromatizzazione attuata prevalentemente con velature a tecnica mista su formati 90x90 e 90x135 cm. La figurazione si compone di antropoidi e oggetti comuni che insieme a immaginarie forme vitali partecipano ad uno o più riti di natura e finalità imprecisate, svolti in spazi e luoghi di sapore rivierasco.  La  rappresentazione delle ritualità è illustrata in modo più ricco nei lavori grafici a china e a tempera nera oltre che nelle  incisioni  ad acquaforte. In questo periodo ha fatto mostre personali e collettive in varie parti d’Italia perché sostenuto da un contratto di collaborazione con la galleria “La Semantica“ di Chieri (Torino) e dalla critica d’arte Adele Menzio. La Menzio scrive in occasione di una personale nel gennaio 1975:”…dissacratore elegante racconta in chiave simbolica fantastiche storie.. ..il suo mondo magico ed esoterico affonda le radici culturali nell’antichità, nei principi delle religioni orientali, in un continuo recupero di valori e postulati che  oggi vengono riscoperti e approfonditi”. Nascono le “narrazioni rituali” di Mian.

 E’ presente nel catalogo Bolaffi n° 10 del 1975 e nel catalogo Informazione Arte 1975-76

 L’ultima mostra personale è a Torino  alla galleria “ Lo Scorpione”  in via Maria Vittoria, ­­­­­2 a novembre del 1976.

 

    Incontra la fotografia nel 1957 quando acquista la prima macchina che utilizza per fare pratica documentando familiari e amici e anche i paesaggi e i monumenti della parte a mare della Valle Argentina.

  Dal 1966 con la prima reflex parte la sua indagine sull’espressività e la potenzialità comunicativa del mezzo. Studia la straordinaria molteplicità degli effetti che la luce attiva quando modella l’ambiente, le persone e le cose. Alla fine degli anni ’60 sperimenta il “mosso eccentrico”, cioè esegue fotografie del moto pendolare applicato a cose e persone. Nello stesso periodo produce composizioni in equilibrio tra grafica e fotografia ottenute stampando coppie di negativi sovrapposti e reciprocamente capovolti e rovesciati con variazioni di registro. Sulle stampe interviene poi con mezzi grafici per accorpare aree di tonalità affini. Negli anni ’70 si  occupa prevalentemente di riprese col banco ottico, producendo immagini di still-life ed architettura, collabora con contributi critici a Popular Photography e inizia la didattica della fotografia e del disegno.

   Negli anni ’80 ricerca come trovare “paesaggi” o visioni nelle porzioni delle sculture di vari artisti; negli anni ’90 fotografa senza particolari ricerche dedicandosi prevalentemente alla macrofotografia. Dipinge poco anche per gli impegni di architetto ed esegue in prevalenza grafiche a china. I quadri hanno perso la preparazione a stucco e i formati sono cambiati, sono scomparsi i lavori a tempera e quelli a inchiostro  introducono saltuariamente tracce di colore. Soggetto e oggetto del suo lavoro continua a essere la narrazione di riti ed eventi rituali.

 

    La congiunzione tra pittura e fotografia avviene alla fine degli anni ’90 per merito delle nuove tecnologie digitali. E’ una fusione in lui molto forte  che, in breve, avvita e carica le due discipline in un unicum espressivo che si configura nelle personalissime installazioni virtuali. Nelle prime sperimentazioni utilizza l’immagine analogica acquisita ed elaborata digitalmente. Ribalta, sdoppia e stira il mosaico elettronico, mirando a ottenere una superficie materica  pittoricamente viva. Superata la fase di ricerca sulla qualità dell’impasto cromatico attraverso i pixel, passa alla trasformazione dell’immagine prima per mezzo della dilatazione di sue porzioni e poi inserendo volumi virtuali ai quali applica le elaborazioni cromatiche sperimentate.

Indaga il processo che regola la sensazione, la percezione e l’immaginazione dei luoghi  fisici e mentali. Studia come  visualizzare nell’immagine le tracce della memoria facendo interagire vibrazioni e ritmi del tono e del timbro di luci e ombre. All’inizio, i suoi materiali-immagine principali sono le riproduzioni della storia dell’arte, i fotogrammi di programmazioni  televisive e le foto del proprio archivio di slides. Dal 2003 utilizza ed elabora in prevalenza le fotografie digitali che  esegue osservando la metamorfosi dell’epidermide urbana pubblica e privata, intesa come volto della modernità. Gi scatti, eseguiti con effetti prospettici suggeriti dalla specificità dei soggetti e dalle circostanze ambientali, percorrono alcune tracce privilegiate quali:

a) le esternazioni visive della cultura dominante attraverso i messaggi delle affissioni pubblicitarie selezionate nelle parti in cui le alterazioni superficiali, quali strappi e altre manomissioni, conferiscono plasticità all’inquadratura

b) le impronte della cultura giovanile e subalterna nei segni dei writer sui muri e non solo, sotto forma di “tag”, graffiti, stiker, stencil e in tutte le forme di controinformazione

c) le testimonianze visive che emergono dalle intersezioni  tra le voci delle culture portate in città dalle nuove etnie stanziali che incontriamo, affiancate e sovrapposte, a quelle native

d) le porzioni di vita specchiate e deformate nell’acqua, nelle plastiche e nei metalli, nel vetro di quadri e vetrine, quando i riflessi dell’intorno si uniscono all’oggetto e al luogo dando corpo a una nuova immagine estemporanea

e) gli spazi e i dettagli del vivere quotidiano che diventano cifra se scolpiti dalla luce

f) le stratificazioni dei segni del tempo che transitano, si consolidano e si dissolvono sulla pelle della città, raccolte in un frammento visivo che ne documenta l’attualità e la loro continua trasformazione che è chimica e meccanica a un tempo. In generale il “qui e ora” come evento flash, anche catturato da vari media con scansioni e foto.­

 

    Nelle opere digitali in alcuni casi conferisce un effetto prismatico a tutta l’immagine, in altri disegna un prisma in sintonia o antagonista alla struttura prospettica della scena. Il prisma appare in più forme e con differenti trattamenti delle superfici: con trasparenze e luminescenze in sovrapposizione al soggetto, con il riflesso verosimile dell’ambiente circostante e anche con richiami, resi in modo  diafano o cristallino, a luoghi e volti della memoria sulle tracce del ricordo.

 Il prisma, che può essere anche un vetro o uno specchio, risulta interposto in modo percettivamente dinamico tra l’osservatore e il soggetto come un filtro-lente che seleziona e in parte deforma l’immagine stessa. Altre volte disegna un prisma a tratteggio con effetto spray su tutta l’immagine oppure incapsula uno o più soggetti della scena in un telaio prismatico fluorescente che li isola dal contesto e li fa percepire in modo tridimensionale. Completa a volte l’interferenza con l’appoggio di fili luminosi come fossero fibre ottiche. In recenti lavori applica virtualmente su pavimenti o pareti un telaio prismatico patchwork che viene in parte coperto da oggetti, persone e ombre.

 

 Nascono così le installazioni virtuali come un “frame” dell’evento che risulta anche il lavoro finale. L’insieme è poi rivisitato digitalmente per rafforzarne la vibrazione in senso pittorico. La verità, dice l’autore, non esiste o forse la verità è anche ciò che non appare, nascosta o protetta da un qualche nostro “prisma” mentale.

 

  Nelle opere di pittura continua a proporre le sue narrazioni rituali intese come osservazioni e riflessioni sulla condizione umana e sul mondo rappresentato e rappresentabile. Lo fa nella forma e nei contenuti avviati alla fine degli anni ’60 eseguiti  ancora con tecniche miste quali olio con acrilico e con inchiostri. Lo fa  su superfici libere e su superfici stampate come le pagine di giornali o rotocalchi e anche su riproduzioni d’arte. Degli stampati mantiene alcune porzioni che si integrano nell’impasto cromatico e figurativo complessivo. Disegna tuttora i suoi eventi rituali su carta con  matita e inchiostri e realizza lavori “minimalisti” cioè interventi fatti a tratto continuo su superfici preparate di medio-grande formato che si differenziano dai disegni per la tecnica del segno e per le dimensioni.

 

In entrambi i generi di lavori si incontrano storie di interferenze, incursioni, sopravvivenze e incorporazioni  tra due e a volte più immagini. Il residuo che sopravvive di una si congiunge con l’altra e il tutto è plasmato per  divenire l’effige di una nuova identità.

 

Elisabetta Carpeggiani        Mantova, maggio 2009

 

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