Francesco Mian ha cominciato a dipingere da ragazzo negli anni ‘50 sperimentando da autodidatta, attratto dal cubismo di Braque, dal futurismo di Depero e dall’astrattismo geometrico di Soldati.
Nel 1960, allievo dei
pittori Maiolino di Bordighera e Beltrame di Sanremo, apprende le tecniche
della pittura a olio applicate
alla natura morta e al paesaggio, partecipa a mostre
collettive in Riviera.
Si trasferisce a Milano per
seguire gli studi di architettura al Politecnico. Vive le dinamiche culturali
prodotte dagli eventi del tempo e indaga i fatti sociali nelle loro complesse
mutazioni. Crede, come molti della sua generazione, nella necessità di una
scelta morale e ideologica che
guidi la vita.
L’incalzare della “Pop Art” con cui si “scontra”
alla Biennale di Venezia del ’64, una breve frequentazione di Tapies e varie
sperimentazioni contribuiscono a
fargli avviare la ricerca artistico-pittorica che tuttora gli è propria. E’ un’espressione
pervasa da influssi metafisico–surrealisti e coniugata con sintesi concettuali
in cui domina il segno. E’ il percorso di
un cartografo del campo
psichico in viaggio tra i passi
del quotidiano sopravvivere. Forma e colore sono sopravanzati da un segno
sinuoso e primario che contiene la sintesi delle emozioni, dei sentimenti e dei
progetti intrecciata saldamente
con passato presente e futuro.
Definisce e applica
su tavola un linguaggio pittorico
che continuerà a usare inalterato fino al
1978: stesura con spatola larga di una base di stucco su tutta la
tavola, esecuzione a graffito dei soggetti e loro cromatizzazione attuata prevalentemente con velature a
tecnica mista su formati 90x90 e 90x135 cm. La figurazione si compone di antropoidi
e oggetti comuni che insieme a immaginarie forme vitali partecipano ad uno o
più riti di natura e finalità imprecisate, svolti in spazi e luoghi di sapore
rivierasco. La rappresentazione delle ritualità è
illustrata in modo più ricco nei lavori grafici a china e a tempera nera oltre
che nelle incisioni ad acquaforte. In questo periodo ha
fatto mostre personali e collettive in varie parti d’Italia perché sostenuto da
un contratto di collaborazione con la galleria “La Semantica“ di Chieri
(Torino) e dalla critica d’arte
Adele Menzio. La Menzio scrive in occasione di una personale nel gennaio
1975:”…dissacratore elegante racconta in chiave simbolica fantastiche storie..
..il suo mondo magico ed esoterico affonda le radici culturali nell’antichità,
nei principi delle religioni orientali, in un continuo recupero di valori e
postulati che oggi vengono
riscoperti e approfonditi”. Nascono le “narrazioni rituali” di Mian.
E’ presente nel catalogo Bolaffi n° 10
del 1975 e nel catalogo Informazione Arte 1975-76
L’ultima mostra personale è a Torino alla galleria “ Lo Scorpione” in via Maria Vittoria, 2 a
novembre del 1976.
Incontra la fotografia nel
1957 quando acquista la prima macchina che utilizza per fare pratica
documentando familiari e amici e anche i paesaggi e i monumenti della parte a
mare della Valle Argentina.
Dal 1966 con la prima reflex parte la
sua indagine sull’espressività e la potenzialità comunicativa del mezzo. Studia
la straordinaria molteplicità degli effetti che la luce attiva quando modella
l’ambiente, le persone e le cose. Alla fine degli anni ’60 sperimenta il “mosso
eccentrico”, cioè esegue fotografie del moto pendolare applicato a cose e
persone. Nello stesso periodo produce composizioni in equilibrio tra grafica e
fotografia ottenute stampando coppie
di negativi sovrapposti e reciprocamente capovolti e rovesciati con
variazioni di registro. Sulle stampe interviene poi con mezzi grafici per
accorpare aree di tonalità affini. Negli anni ’70 si occupa prevalentemente di riprese col banco ottico,
producendo immagini di still-life ed architettura, collabora con contributi
critici a Popular Photography e inizia la didattica della fotografia e del
disegno.
Negli anni ’80 ricerca come
trovare “paesaggi” o visioni nelle porzioni delle sculture di vari artisti;
negli anni ’90 fotografa senza particolari ricerche dedicandosi prevalentemente
alla macrofotografia. Dipinge poco anche per gli impegni di architetto ed
esegue in prevalenza grafiche a china. I quadri hanno perso la preparazione a
stucco e i formati sono cambiati, sono scomparsi i lavori a tempera e quelli a
inchiostro introducono
saltuariamente tracce di colore. Soggetto e oggetto del suo lavoro continua a
essere la narrazione di riti ed eventi rituali.
La congiunzione tra pittura
e fotografia avviene alla fine degli anni ’90 per merito delle nuove tecnologie
digitali. E’ una
fusione in lui molto forte che, in
breve, avvita e carica le due discipline in un unicum espressivo che si
configura nelle personalissime installazioni virtuali. Nelle prime sperimentazioni
utilizza l’immagine analogica acquisita ed elaborata digitalmente. Ribalta,
sdoppia e stira il mosaico elettronico, mirando a ottenere una superficie
materica pittoricamente viva.
Superata la fase di ricerca sulla
qualità dell’impasto cromatico attraverso i pixel, passa alla
trasformazione dell’immagine prima per mezzo della dilatazione di sue porzioni
e poi inserendo volumi virtuali ai quali applica le elaborazioni cromatiche
sperimentate.
Indaga il processo che
regola la sensazione, la percezione e l’immaginazione dei luoghi fisici e mentali. Studia come visualizzare nell’immagine le tracce
della memoria facendo interagire vibrazioni e ritmi del tono e del timbro di
luci e ombre. All’inizio, i suoi materiali-immagine principali sono le riproduzioni
della storia dell’arte, i fotogrammi di programmazioni televisive e le foto del proprio
archivio di slides. Dal 2003 utilizza ed elabora in prevalenza le fotografie
digitali che esegue osservando la
metamorfosi dell’epidermide urbana pubblica e privata, intesa come volto della
modernità. Gi scatti, eseguiti con effetti prospettici suggeriti dalla
specificità dei soggetti e dalle circostanze ambientali, percorrono alcune
tracce privilegiate quali:
a)
le
esternazioni visive della cultura dominante attraverso i messaggi delle
affissioni pubblicitarie selezionate nelle parti in cui le alterazioni
superficiali, quali strappi e altre manomissioni, conferiscono plasticità all’inquadratura
b)
le
impronte della cultura giovanile e subalterna nei segni dei writer sui muri e
non solo, sotto forma di “tag”, graffiti, stiker, stencil e in tutte le forme
di controinformazione
c)
le
testimonianze visive che emergono dalle
intersezioni tra le voci
delle culture portate in città dalle nuove etnie stanziali che incontriamo,
affiancate e sovrapposte, a quelle native
d)
le
porzioni di vita specchiate e deformate nell’acqua, nelle plastiche e nei
metalli, nel vetro di quadri e vetrine, quando i riflessi dell’intorno si
uniscono all’oggetto e al luogo dando corpo a una nuova immagine estemporanea
e)
gli
spazi e i dettagli del vivere quotidiano che diventano cifra se scolpiti dalla
luce
f)
le
stratificazioni dei segni del tempo che transitano, si consolidano e si
dissolvono sulla pelle della città, raccolte in un frammento visivo che ne documenta
l’attualità e la loro continua trasformazione che è chimica e meccanica a un
tempo. In generale il “qui e ora” come evento flash, anche catturato da vari
media con scansioni e foto.
Nelle opere digitali in
alcuni casi conferisce un effetto prismatico a tutta l’immagine, in altri
disegna un prisma in sintonia o antagonista alla struttura prospettica della
scena. Il prisma appare in più forme e con differenti trattamenti delle
superfici: con trasparenze e luminescenze in sovrapposizione al soggetto, con
il riflesso verosimile dell’ambiente circostante e anche con richiami, resi in
modo diafano o cristallino, a
luoghi e volti della memoria sulle tracce del ricordo.
Il prisma, che può essere anche un vetro
o uno specchio, risulta interposto in modo percettivamente dinamico tra
l’osservatore e il soggetto come un filtro-lente che seleziona e in parte
deforma l’immagine stessa. Altre volte disegna un prisma a tratteggio con
effetto spray su tutta l’immagine oppure incapsula uno o più soggetti della
scena in un telaio prismatico fluorescente che li isola dal contesto e li fa
percepire in modo tridimensionale. Completa a volte l’interferenza con l’appoggio
di fili luminosi come fossero fibre ottiche. In recenti lavori applica
virtualmente su pavimenti o pareti un telaio prismatico patchwork che viene in
parte coperto da oggetti, persone e ombre.
Nascono così le installazioni
virtuali
come un “frame” dell’evento che risulta anche il lavoro finale. L’insieme è poi
rivisitato digitalmente per rafforzarne la vibrazione in senso pittorico. La
verità, dice l’autore, non esiste o forse la verità è anche ciò che non appare,
nascosta o protetta da un qualche nostro “prisma” mentale.
Nelle opere di pittura continua a
proporre le sue narrazioni rituali intese come osservazioni
e riflessioni sulla condizione umana e sul mondo rappresentato e
rappresentabile. Lo fa nella forma e nei contenuti avviati alla fine degli anni
’60 eseguiti ancora con tecniche
miste quali olio con acrilico e con inchiostri. Lo fa su superfici libere e su superfici stampate come le pagine
di giornali o rotocalchi e anche su riproduzioni d’arte. Degli stampati
mantiene alcune porzioni che si integrano nell’impasto cromatico e figurativo
complessivo. Disegna tuttora i suoi eventi rituali su carta con matita e inchiostri e realizza lavori “minimalisti”
cioè interventi fatti a tratto continuo su superfici preparate di medio-grande formato
che si differenziano dai disegni per la tecnica del segno e per le dimensioni.
In entrambi i generi di
lavori si incontrano storie di interferenze, incursioni, sopravvivenze e
incorporazioni tra due e a volte
più immagini. Il residuo che sopravvive di una si congiunge con l’altra e il
tutto è plasmato per divenire l’effige
di una nuova identità.
Elisabetta
Carpeggiani Mantova,
maggio 2009